LA FAMIGLIA FEDRI



I Fedri :una dinastia per la musica ( 1719-1957)

Dalle celesti armonie di Adriano a Dino,

il pianista reatino amato da Beniamino Gigli 


                      Introduzione dell'autore Giovanni Di Leonardo

 

Questo lavoro, incentrato su alcuni protagonisti della vita culturale dell’antica e nobile città di Rieti, vuole essere la continuazione di Organari Abruzzesi del Settecento, riprendendo sinteticamente il discorso da Adriano Fedeli-Fedri per poi esaminare più attentamente l’arte e le vicende dei suoi discendenti. Il primo volume ci fu sollecitato da Claudio Angelozzi di Atri, figlio di Maria Fedri, l’ultima abruzzese a portare tale cognome; mentre per questo secondo lavoro siamo grati a Renzo, Angelo, Gabriella ed Egisto Fedri, in particolare, ma a tutti gli altri discendenti che, visto il precedente risultato, si sono mobilitati nel ricercare nei più impensabili ripostigli, al fine di riportare alla luce ricordi, ritagli di giornale, foto, ecc., e consentire, speriamo, un altrettanto valido risultato.

L’intento è quello di seguire questa famiglia di organari fino all’ultimo costruttore, Celestino (1884-1960), per dare spazio, infine, al suo ultimo musicista, Dino (1912-1957), che fu compositore e direttore d’orchestra.

Un cenno va fatto a Feliciano Fedeli (Corgneto, 1684 c.a; 19-11-1746), il capostipite finora conosciuto di questi importanti costruttori di organi, che hanno arricchito centinaia di chiese di tutta l’Italia Centrale con i loro preziosi strumenti, a partire da quello monumentale della chiesa di S. Bernardino (1725), a L’Aquila.

Adriano, primogenito maschio di Feliciano, dopo una parentesi quasi decennale a Rieti, si sposterà repentinamente ad Ascoli Piceno, per poi entrare nel Regno di Napoli e stabilirsi per tutta la vita ad Atri. Il suo attivismo va visto insieme a quello più generale degli artigiani che già dal XVI secolo premono per avere un ruolo nella società più vasta, stratificata rigidamente in patriziato, clero e popolo. Nel Settecento fa capolino il ceto proprietario, essenziale per la vita economica e sociale.

Il Nostro fa certamente parte dell’artigianato benestante che trova nuove forme di inserimento e promozione sociale, con le quali dà vita ad un ceto vivace, tipicamente tardo settecentesco, quello degli industrianti, che si struttura quando la rendita comincia a prevalere sull’attività lavorativa; così essi si trasformano in proprietari, facendo nascere una piccola e media borghesia, che non è ancora intellettuale e neanche imprenditoriale, e che non disdegna la proprietà della terra e delle case. Vedremo Adriano che acquista una casa ed un tenore di vita che si può senz’altro dire di ceto medio.

Osserveremo, attraverso varie fasi e protagonisti, l’evoluzione dell’arte organaria dall’eccellenza di Adriano agli ottimi risultati conseguiti dai suoi eredi. Vedremo anche che quest’arte subisce una fase di declino che coincide con la fine del collateralismo tra la chiesa e il potere assoluto, le soppressioni napoleoniche e poi quelle del periodo post unitario. Di questa crisi fa subito le spese il ramo atriano quando, con Gaetano, figlio di Emidio, nei primi decenni dell’Ottocento, ci sarà il tentativo di riconvertirsi in agrimensore, mestiere che eserciteranno quasi tutti i suoi discendenti. Il ramo reatino ed aquilano resisterà ancora per alcuni decenni, e solo negli anni Trenta del secolo passato abbandonerà quest’arte.


 il Maestro Dino Fedri al pianoforte,

accompagna il celebre tenore Beniamino Gigli




A Rieti, invece, si stabilì definitivamente il fratello maggiore di questi, Egisto, ed ebbe un ruolo nella diffusione della musica, attività continuata, poi, da suo figlio Dino che a Rieti mosse i primi passi da Direttore d’Orchestra, Pianista e Compositore.

E difficile, a noi cittadini del XXI secolo, immaginare la bottega di un costruttore di organi del Settecento: mancano documenti scritti e tanto meno dipinti che ne ritraggano l’atmosfera, ma con un piccolo sforzo possiamo raffIgurarci gli attrezzi e la laboriosità di quei maestri, dei veri artigiani-artisti itineranti, almeno fino a metà Settecento, con precise conoscenze in molti campi: falegnameria, metallurgia, fisica, acustica, musica ecc.. Oltre alle opere in legno: somiere, cassa armonica, cantoria, una parte delle canne, mantici, ecc., dovevano realizzare le canne in Piombo e Stagno, quasi sempre legati a Marcasite, talvolta, in piccole percentuali, usavano anche Antimonio, Bismuto e Rame. Quindi oltre ai vari attrezzi da falegnameria, avremmo visto un crogiuolo per la fusione dei metalli suddetti, schiumarole per purificare le fusioni, ed altri attrezzi per la realizzazione delle lastre da usare poi per realizzare le canne. Le percentuali dei metalli, le tecniche di fusione, lo spessore delle lastre, la forma delle “bocche” erano parte dei segreti del singolo organaro.

La trasmissione delle conoscenze tecniche, in questa dinastia, come d’altro canto in quasi tutti i mestieri che attengono all’artigianato artistico, avviene direttamente dalla lunga collaborazione padre-figlio, processo nel quale, oltre a tramandare abilità tecniche, si crea un’alchimia di intenti e di passione per quest’attività, che rendono gli organi, non sterili strumenti musicali, ma vere e proprie opere d’arte, con una precisa individualità in cui sono riconoscibili voce e anima.



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Si ringrazia Renzo Fedri per la sua squisitezza e per i suggerimenti.